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Il Mostro A Tre Braccia E I Satanassi Di Torino

Язык: Итальянский
Тип: Текст
Год издания: 2019
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Il Mostro A Tre Braccia E I Satanassi Di Torino
Guido Pagliarino

L’autore aveva scritto questi due racconti lunghi, giunti ormai, con varianti, alla terza edizione, nel 1994 e nel 1995, di poco anteriormente al sorgere della moda del giallo e poliziesco italiani. Sono opere basate sulle figure di Vittorio D’Aiazzo, commissario e poi vice questore, e di Ranieri Velli, suo aiutante e amico, personaggi che, l'uno o entrambi, ritornano in altri romanzi e racconti di Guido Pagliarino: è uscito da poco per i tipi dell'Editrice Genesi l'ultimo romanzo sul personaggio D’Aiazzo, il prequel ”L'ira dei vilipesi”. In tutti questi lavori si può notare attenzione per le psicologie e gli ambienti, questi del passato più o meno recente. Ne erano e sono destinatari i lettori di narrativa in generale che, pur non disdegnando opere che trattino di delitti, non abbiano gusti alla paprika; non ci si aspetti dunque racconti alla Raymond Chandler o James Ellroy o, per stare in Europa, alla Manuel Vazquez Montalban.

Dalla prefazione dell’autore: Avevo scritto questi due racconti lunghi, o romanzi brevi, nel 1994 e nel 1995, di poco anteriormente al sorgere della moda del giallo e poliziesco italiani, lavori basati sulle figure di Vittorio D’Aiazzo, commissario e poi vice questore, e di Ranieri Velli, suo aiutante e amico, personaggi che, l'uno o entrambi, ritornano in altri miei romanzi e racconti; l'ultimo romanzo sul D'Aiazzo è uscito, per i tipi dell'Editrice Genesi (2017) e di Tektime Editore (2018), rispettivamente in formato cartaceo e nei formati e-book: è  il prequel ”L'ira dei vilipesi” ambientato durante le 4 Giornate di Napoli nel 1943. Sempre, in questi lavori ho prestato in primo luogo attenzione alle psicologie e agli ambienti, questi tutti del passato più o meno recente con qualche nostalgia per quella Torino della mia adolescenza e giovinezza che più non esiste. Ne erano e sono destinatari i lettori di narrativa in generale che, pur non disdegnando opere che trattino di delitti, non abbiano gusti alla paprika; non ci si aspetti dunque racconti alla Raymond Chandler o James Ellroy o, restando in Europa, alla Manuel Vazquez Montalban; ma neppure, d'altro canto, si attendano indagini arzigogolate, ben poco verosimili, come quelle ideate da Agatha Christie. L’azione del paio di racconti inclusi in questo libro si svolge in un periodo ancora pre-cibernetico, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60 dello scorso secolo . Era un’epoca in cui non c’erano ancora il personal computer e il telefonino, tutte le famiglie avevano la radio ma pochissime la televisione, in bianco e nero, canale RAI unico: però senza pubblicità, a parte il simpatico e oggidì quasi leggendario “Carosello”. Una Torino, insomma, in cui un investigatore poteva ancora operare quasi come i suoi colleghi dei gialli e polizieschi classici europei anni ’20-50. Nel primo racconto, ”D'Aiazzo e il mostro a tre braccia”, viene picchiato a morte da ignoti un antiquario e restauratore torinese, Tarcisio Benvenuto, uomo dal fisico deforme che, alla nascita, era stato abbandonato dall’ignota madre ed esposto alla carità delle suore d’un istituto religioso torinese. Dal nulla, lavorando senza posa era divenuto proprietario d’un negozio all’ingrosso e al dettaglio in zona Porta Palazzo . Nel secondo racconto, ”D'Aiazzo e i satanassi”, steso a terra sul proprio sangue è ritrovato per istrada, da una camionetta della Polizia, il cadavere d’un attempato piccolo industriale, il commendator Paolo Verdi, il cui giovane figlio Carlo, dottore in psicologia, è in prigione in attesa di giudizio, accusato di violenza carnale a Giuseppina Corsati, dattilografa del padre poco più che adolescente; ma egli dichiara al commissario D’Aiazzo d’essere privo di colpa. In carcere è fatto oggetto di brutalizzazioni da parte di altri detenuti . Di certo la deflorazione di Giuseppina c’è stata, ne presenta i segni, però non potrebbe, forse, la famiglia di lei aver architettato la violenza per averne un risarcimento finanziario? .  Intervengono nella storia il poco intelligente Carlone che aveva avuto in passato nascosti legami con papà Verdi, e un filosofo libero docente all’Università di Torino ed ex ufficiale nella Repubblica di Salò, presso il cui fratello, che ben diversamente era stato membro del Comitato di Liberazione Nazionale, lavora quale cameriera l’ambigua Luciana Corsati, madre di Giuseppina. Dal profondo della vicenda affiorano anche parlamentari tutt’altro che adamantini e, a un certo punto, ne emana una sulfurea esalazione infernale che il commissario ventilerà riuscendo, o quasi, a fare giustizia.

Guido Pagliarino

Il mostro a tre braccia

e

I satanassi di Torino

Due racconti lunghi

Guido Pagliarino

Il mostro a tre braccia e I satanassi di Torino

Due racconti lunghi

3a Edizione

Distribuzione Tektime

Copyright © Guido Pagliarino – Tutti i diritti appartengono all'autore

Racconto "Il mostro a tre braccia" Copyright © 1994 Guido Pagliarino

Racconto "I satanassi di Torino" Copyright © 1995 Guido Pagliarino

1a Edizione cartacea, Copyright © 2009-2011, 0111 Edizio

Dal 2012 di nuovo Copyright © di Guido Pagliarino: tutti i diritti sono tornati all'autore

2a Edizione, solo in e-book in tutti i formati, Copyright © 2015 Guido Pagliarino

Le copertine di tutte le edizioni e le relative immagini sono state realizzate elettronicamente da Guido Pagliarino

Gli avvenimenti, i personaggi, i nomi di persone, enti, ditte e società e di loro prodotti e servizi che appaiono in questi racconti sono immaginari e ogni eventuale riferimento alla realtà presente o passata è casuale e involontario

Indice

Prefazione dell'autore a (#ulink_f1e7ff37-b9be-583e-99a1-e090a5d38d0a)lla terza edizione (#ulink_f1e7ff37-b9be-583e-99a1-e090a5d38d0a)

Il mostro a tre braccia, raccont (#ulink_056d27d9-1556-5ed6-85ad-195eea637655)o lung (#ulink_056d27d9-1556-5ed6-85ad-195eea637655)o (#ulink_056d27d9-1556-5ed6-85ad-195eea637655)

I satanassi di Torino, raccont o lung o

(#ulink_d00a5c61-9e9e-5d84-a321-ceb74e85158d)

PREFAZIONE DELL’AUTORE A (#ulink_d00a5c61-9e9e-5d84-a321-ceb74e85158d)LLA TERZA EDIZIONE (#ulink_d00a5c61-9e9e-5d84-a321-ceb74e85158d)

Avevo scritto questi due racconti lunghi nel 1994 e nel 1995, di poco anteriormente al sorgere della moda del giallo e poliziesco italiani, lavori basati sulle figure di Vittorio D’Aiazzo, commissario e poi vice questore, e di Ranieri Velli, suo aiutante e amico, personaggi che, l'uno o entrambi, ritornano in altre mie opere: è uscito da pochissimo, per i tipi dell'Editrice Genesi, l'ultimo romanzo sul personaggio D’Aiazzo, il prequel "L'ira dei vilipesi".

Sempre, in questi lavori ho prestato in primo luogo attenzione alle psicologie e agli ambienti, questi tutti del passato più o meno recente con qualche nostalgia per quella Torino della mia adolescenza e giovinezza che più non esiste. Ne erano e sono destinatari i lettori di narrativa in generale che, pur non disdegnando opere che trattino di delitti, non abbiano gusti alla paprika; non ci si aspetti dunque racconti alla Raymond Chandler o James Ellroy o, restando in Europa, alla Manuel Vazquez Montalban; ma neppure, d'altro canto, si attendano indagini arzigogolate, ben poco verosimili, come quelle ideate da Agatha Christie.

L’azione del paio di racconti inclusi in questo libro si svolge in un periodo ancora pre-cibernetico, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60 dello scorso secolo, in una Torino dove, nell’area di Porta Palazzo e dintorni, centrale al primo lavoro, non abitavano ancora, come oggi, quasi soltanto extracomunitari, ma anziani piemontesi in pensione, originari della zona, e giovani famiglie dell’immigrazione meridionale; una città in cui arterie principali quali corso Vittorio Emanuele II e corso Regina Margherita vedevano, quasi, più mezzi di trasporto pubblici che privati. Fra questi ultimi, nelle vie e nei contro viali giravano molte biciclette, alcune a motore, mentre già si vedevano le prime auto 600 e 500, normalmente comperate a rate, con chili di cambiali, da qualche impiegato avanti nella carriera o occupato alla regina FIAT, signora ben più di oggi di Torino e cintura. Qua e là, poi, rombavano le automobili di maggior prezzo, acquistate da esponenti dell’alta e media borghesia, come la FIAT 1400 e l’ALFA ROMEO 1900 – questa usata pure dalla Polizia: la cosiddetta pantera – o come la fantasmagorica, per giovani figli di ricchi, LANCIA Aurelia Sport 1200, quella del film “Il sorpasso”, auto diretta concorrente dell’ALFA Giulietta spider 1300. Con le automobili e le biciclette circolavano vespe e lambrette assieme a qualche motocicletta di piccola cilindrata. Era quella un’epoca in cui non c’erano ancora il personal computer e il telefonino, tutte le famiglie avevano la radio ma pochissime la televisione, in bianco e nero, canale RAI unico: però senza pubblicità, a parte il simpatico e oggidì quasi leggendario “Carosello”. Una Torino, insomma, in cui un investigatore poteva ancora operare quasi come i suoi colleghi dei gialli e polizieschi classici europei anni ’20-50.

Nel primo racconto, "D'Aiazzo e il mostro a tre braccia", viene picchiato a morte da ignoti un antiquario e restauratore torinese, Tarcisio Benvenuto, uomo dal fisico deforme che, alla nascita, era stato abbandonato dall’ignota madre ed esposto alla carità delle suore d’un istituto religioso torinese. Dal nulla, lavorando senza posa era divenuto proprietario d’un negozio all’ingrosso e al dettaglio in zona Porta Palazzo. Le suore sue educatrici lo ricordano come persona di bontà quasi angelica e così pure è per altri come la giovanissima sua magazziniera Mariangela che, anzi, parrebbe esserne stata innamorata nonostante l’aspetto mostruoso di lui. Proprio l'incontrario affermano Giulia, avvenente e disinibita sua ex dipendente, adesso prostituta, e un altro dei suoi magazzinieri, Alfonso, e così pure è per alcuni piccoli commercianti clienti del Benvenuto: secondo tutti loro, egli era stato un individuo furioso e vendicativo. Il commissario, dopo aver cercato e sottoposto a interrogatorio più d’un sospettato - siamo solo, insolitamente, a poco più dei due terzi del racconto - scopre l’omicida; il resto della narrazione è dedicato al perché e al come, che il poliziotto espone al suo aiutante e, con lui, al lettore. Viceversa, nel secondo racconto, "D'Aiazzo e i satanassi", le indagini, relative a un’uccisione e a una violenza carnale proseguono fin quasi al termine: Steso a terra sul proprio sangue è ritrovato per strada, da una camionetta della Polizia, il cadavere d’un attempato piccolo industriale, il commendator Paolo Verdi, il cui giovane figlio Carlo, dottore in psicologia, è in prigione in attesa di giudizio, accusato di violenza carnale a Giuseppina Corsati, dattilografa del padre poco più che adolescente; ma egli dichiara al commissario D’Aiazzo d’essere privo di colpa. In carcere è fatto oggetto di brutalizzazioni da parte di altri detenuti, forse a causa del distorto senso di “giustizia” per il quale i violentatori vengono vessati da compagni di detenzione, o forse per mandato esterno di qualcuno affinché Carlo s’intimorisca e si lasci condannare senza difendersi. Di certo la deflorazione di Giuseppina c’è stata, ne presenta i segni, però non potrebbe, forse, la famiglia di lei aver architettato la violenza per averne un risarcimento finanziario? Sicuro è che gli uomini Corsati non sono figure specchiate, anzi sono i bulli del proprio quartiere e in particolare il padre, già sottufficiale delle Brigate Nere a fianco dei nazisti durante il secondo conflitto mondiale, è un bruto assoluto: che sia stato proprio lui a violentare Giuseppina, lei consenziente? O forse uno dei suoi figli maschi? Carlo chiede al commissario d’accertarlo. Intervengono nella storia il poco intelligente Carlone, che aveva avuto in passato nascosti legami con papà Verdi, e un filosofo libero docente all’Università di Torino ed ex ufficiale nella Repubblica di Salò, presso il cui fratello, che ben diversamente era stato membro del Comitato di Liberazione Nazionale, lavora quale cameriera Luciana Corsati, madre di Giuseppina. Dal profondo della vicenda affiorano anche parlamentari tutt’altro che adamantini e, a un certo punto, ne emana una sulfurea esalazione infernale che il commissario ventilerà riuscendo, o quasi, a fare giustizia.

Guido Pagliarino

Guido Pagliarino

IL MOSTRO A TRE BRACCIA (#ulink_d00a5c61-9e9e-5d84-a321-ceb74e85158d)

Racconto lungo

I

Vittorio D'Aiazzo se n'era arrivato in Questura radioso.

Era il 20 maggio del 1959, nostro ultimo giorno alla Squadra Mobile di Genova. Da tempo non vedevo il commissario così raggiante. Da quando sua moglie era fuggita con un altro, sul volto dell'amico non c'era stata che tristezza; ma finalmente avrebbe lasciato la città e l'appartamento che gli rammentavano ogni giorno "la traditrice", della quale era ancora cotto come un pollo arrosto: nessun dubbio che la sua richiesta di trasferimento a Torino avesse avuto il fine di distrarsene.

Anch’io stavo per partire, con lui. M'aveva chiesto tempo prima se volessi seguirlo e avevo senz’altro presentato domanda: la città di destinazione era la mia. Per me, Ranieri Velli detto Ran, vice brigadiere e, nel poco tempo libero, poeta, era stata un'offerta da cogliere senz'altro, per la nostra buona amicizia e perché erano ancor vivi i miei genitori, ormai non più in piena salute, e avrei potuto aiutarli. Figlio unico, mio padre e mia madre erano i miei soli legami familiari: tutti gli altri parenti erano morti durante la guerra, chi al fronte, chi sotto le bombe, chi durante la lotta di Liberazione. Li avevo delusi, i miei: con molti sacrifici avevano sperato di farmi ingegnere e occuparmi in quella stessa FIAT in cui erano stati operai; ma io odiavo la matematica. Dopo studi incompiuti al liceo scientifico, ero entrato in Polizia, che allora si chiamava ancora ufficialmente Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza. Anche parte del pubblico diceva di noi le guardie, non gli agenti: "Badi, sa? che chiamo le guardie!" M’ero trovato quasi immediatamente agli ordini di Vittorio. Credo fosse diventato mio amico anche perché gli avevo salvato la pelle durante un servizio di scorta; ma forse, più ancora, per il grande amore che portava come me alla poesia: un’amicizia che avevo ricambiato immediatamente, avendolo sentito uomo di grande cuore; e certo per amicizia aveva voluto che lo seguissi a Torino; anzi, avevo pensato che avesse chiesto proprio quella destinazione perché sapeva essere la mia città e conosceva la solitudine dei miei genitori; peraltro sapevo che non gl'importava particolarmente della sede di destinazione, purché fosse capoluogo e non si trattasse di Napoli, la sua città, anche se l'amava moltissimo: avevo saputo da altri della Questura che, nel 1943, Vittorio era stato uno dei patrioti combattenti durante quelle Quattro Giornate di Napoli in cui la città s'era rivoltata contro l'occupante tedesco riuscendo a liberarsi da sola prima dell'arrivo degli Alleati. Lui aveva però sempre evitato di tornarvi, a causa di passati contrasti con un famigliare originati, diceva, "da abbietti motivi d'eredità"; ma una volta s'era lasciato sfuggire che lo sapeva coinvolto in traffici non chiari. Avevo supposto che non volesse prestar servizio a Napoli per non trovarsi in imbarazzo e forse, un giorno, dover addirittura arrestare quel parente. Vittorio aveva allora quarant’anni. Si presentava come uomo piccolino e muscoloso, con una gran testa di capelli ricci neri. Eravamo assai diversi: io, biondo per chi sa quale antico antenato celtico, ero alto quasi un metro e novanta; insieme facevamo il classico il. Anche le nostre idee erano molto differenti, lui cattolico praticante e io, come mio padre, repubblicano storico ateo.

Erano tempi, quelli, che non conoscevano le fotocopiatrici e normalmente ignoravano i computer, ancora rozze enormi macchine di poca memoria a disposizione di assicurazioni, eserciti, alcune grosse imprese; tempi in cui non si sapeva niente del DNA e la nostra Scientifica continuava ad affidarsi alla tradizionale chimica e alle impronte digitali. Gli investigatori scarpinavano, chiedevano notizie alle ancor numerose portinaie e ai vicini di casa, confidavano in un poco di fortuna. Accanto a una criminalità già efferata sopravvivevano tanti piccoli delinquenti normalmente disarmati. La maggior parte degli omicidi era di tipo passionale. Tempo della mia gioventù: avevo appena ventisei anni, in quel 1959.

Occupavo una scrivania nell'atrio dell’ufficio di Vittorio: quella mattina, non appena m’aveva visto, m’aveva sorriso ampio e, secondo la sua abitudine di ricorrere talvolta al suo napoletano, m’aveva saettato: "T'aggio a dicere 'na bellissima cosa: nun se parte cchiù!"

Era felice di restare? Possibile che lo conoscessi così male?!

M’era scoppiato a ridere in faccia: "T'aggio pulcinellato! Si parte, si parte!" e m’aveva mollato un'affettuosa manata sulla spalla, da lasciarmi il livido.

Era questo lo spirito umoristico del mio caro amico, una pasta d'uomo: una pasta dolce.

Giunto a Torino, avevo lasciato i bagagli dai miei, nell'alloggio che affittavano in via Giulio, nel centro storico, in una casa non molto distante dalla Questura, vecchia e con bruttissime scale; ma l'appartamento era confortevole perché la mamma l'aveva di molto curato; dall'interno, non lo si sarebbe immaginato in un palazzo ormai quasi cadente. Unico lusso per quei tempi, un frigorifero invece della ghiacciaia; naturalmente un FIAT, a prezzo scontato per dipendenti ed ex dipendenti.

Non volendo importunare i genitori, avevo deciso che avrei cercato alloggio in una delle stanze per sottufficiali scapoli d'una vicina caserma di corso Valdocco, presso il cui spaccio mia madre, come parente d'un poliziotto, già faceva, a minor costo che nei negozi, la spesa. Lo stesso pomeriggio del mio arrivo avevo chiesto udienza; m'avevano risposto che, al momento, non c'erano posti liberi se non in camerata, pur essendo previsto il trasferimento d'un brigadiere; e m'avevano registrato, per primo, in lista d'attesa. Intanto, i miei s’erano detti felicissimi di ospitarmi, anche per tutta la vita.

L'amico D'Aiazzo, che già a quel fine era stato tempo prima a Torino, aveva affittato un appartamentino in via Cernaia, a due passi dalla Questura di corso Vinzaglio.

Il 21 era considerato interamente giorno di viaggio; avevamo preso dunque servizio la mattina seguente il nostro arrivo.

II

Era passata una settimana ed era circa mezzogiorno:

"Ran, tu che sei di qui conosci la zona di Porta Palazzo, no?" m'aveva chiesto D'Aiazzo, dopo aver risposto all'interfono del nostro ufficio.

"Sì, commissario": in quel tempo, e ancora per qualche mese, nonostante l'amicizia gli davo del lei, anche se in privato lo chiamavo Vittorio.

"Benissimo. Le volanti son tutte occupate. Perciò ti prendi due uomini in divisa e con la nostra auto di servizio corri in via" – aveva scandito – "Cot-to-len-go. La conosci via Cottolengo, no? Ditta Mostro le Antichità. Ha telefonato 'na femmina che stanno, let-te-ral-men-te! ammazzandosi di botte. Il pranzo te lo fai dopo."

Avevamo inserito la sirena della nostra Alfa Romeo 1900 senza contrassegni e l’avevamo tenuta fin all'ultimo, sperando che il suo urlo in avvicinamento intimorisse i violenti e li facesse desistere prima d'un possibile epilogo tragico.

Il negozio, un ampio oscuro magazzino al dettaglio e all'ingrosso di mobili e soprammobili usati, era prossimo alla piazzetta del Balon1, il mercatino delle pulci di Torino.

"Polizia!" Prestavo servizio in borghese, ma essendo i due colleghi in divisa non avevo mostrato il tesserino. Un uomo sanguinante, il viso tumefatto, giaceva a terra supino, privo di conoscenza e forse moribondo. Qualcosa si agitava stranamente sotto la sua camicia. Avevo guardato con stupore quel movimento sul suo petto e avevo pensato che gli fosse uscito il cuore e continuasse a battere esposto sotto l'indumento anche se, come presto avrei realizzato, era un'idea assurda. A semicerchio attorno al morente stavano ferme, come indifferenti, quattro persone.

"Cosa fate?! Le belle statuine? Chi è costui? e voi chi siete?"

"Il padrone; e noi siamo i magazzinieri", aveva risposto una ragazza per tutti.

"L'avete già chiamata, l'ambulanza?"

"N...no", aveva balbettato.

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